La memoria del corpo: la malattia come cicatrice.

Mi piacerebbe raccontare come cambia il corpo, con una patologia cronica. E come cambia la percezione, del corpo, in un soggetto che del corpo ha sempre fatto il proprio oggetto di martirio, tortura e punizioni varie.

Io non credo nel karma, e tutte quelle cose lì, ma credo nella responsabilità individuale e nel fatto che, se gli fai del male per tanto tempo, prima o poi il corpo ti presenta il conto con una marea di interessi.

Quando ho fatto la mia prima e ultima visita reumatologica, il medico mi ha prescritto un antidepressivo SNRI.
La fibromialgia si presenta come un’alterazione neurologica della percezione del dolore e della stanchezza, in seguito alla quale il soggetto malato avverte sensazioni di dolore, stanchezza, ecc in seguito a stimoli che, in una persona sana, non causerebbero nulla o quantomeno non quel livello di dolore e stanchezza. Questa alterazione è dovuta a uno squilibrio di due ormoni fondamentali: serotonina e noradrenalina. Per questo gli SNRI (Serotonin–norepinephrine reuptake inhibitors – inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina e della noradrenalina) agiscono  – o dovrebbero agire, perché spesso non funzionano – in modo da rimodulare e ristabilire la giusta e “normale” percezione del dolore.

Così, mi ha dato il farmaco e mi ha detto di farmi seguire da un neurologo o da uno psichiatra. A quel punto, mi è sembrato giusto dirgli – cosa che finora non avevo fatto per paura di influenzare l’esito della visita – che già anni prima avevo fatto uso di antidepressivi, per via di alcuni problemi con l’umore (mi sono mantenuta vaga, preferendo non entrare nei dettagli).

La fibromialgia è una malattia misconosciuta, e sono tanti i medici che la trattano ancora come “malattia immaginaria” o pura somatizzazione di uno stato depressivo.
In realtà le cose non sono così semplici. Una correlazione tra malattia reumatica e psiche può esistere, ma non in modo così semplicistico e così diretto.
Esistono studi secondo i quali il dolore cronico tende a insorgere in soggetti con una determinata personalità: fragile, ipersensibile, tendente ad addossarsi le colpe dei mali altrui. Secondo altri studi tutto ciò invece non ha alcun fondamento di verità.

A me, personalmente, piace l’interpretazione del mio reumatologo, il quale mi ha detto che tutto ciò che viviamo lascia sul corpo delle cicatrici, destinate a restare come il segno indelebile del dolore che abbiamo vissuto e che portiamo addosso.

Alla rabbia è subentrato il mio stupido sottile compiacimento poetico. Mi piace pensare che la mia sofferenza sia inflitta per sempre nelle mie carni, che ci sarà sempre a ricordarmi ciò che sono stata e ciò che sono.

Siamo marchiati a vita dalla sofferenza, e il corpo non perdona niente.
Come noi non abbiamo mai perdonato niente a lui.

La Sindrome di Atlante: il riconoscimento.

Ho sonno, sono stanca, ho la pancia gonfia, pruriti e dolori diffusi. Mi sento giù di tono e ho perennemente voglia di mangiare.

Ho sempre avuto una spiccata tendenza a stancarmi facilmente e a sentirmi debole, ma la cosa è sempre stata minimizzata dall’ambiente che mi circondava, tanto da farmi pensare, alla lunga, che non ci fosse niente che non andava in me. O meglio, ciò che non andava in me era il mio continuo lamentarmi di qualcosa che in realtà non esisteva, che gli altri non vedevano, e quindi era meglio stare zitta. Be’, in realtà ho continuato a lamentarmi, raccogliendo dissensi e critiche ma imperterrita. Era pur sempre la cosa che mi riusciva meglio e non potevo certo smettere di farlo.

La scorsa primavera, dopo un fine settimana fuori casa in cui mi sono stancata un po’ più del solito, sono tornata a casa e non mi sono alzata più dal letto per 20 giorni. Sì, insomma, come sempre ero stanca, sentivo il bisogno di recuperare le energie, ma questa volta sembrava che io non le recuperassi mai. Dormivo quasi tutto il giorno, e continuavo a essere stanca. Avevo dolori a qualsiasi muscolo, atroci, e niente me li alleviava. Fu un periodo terribile. Non tanto per i dolori, per la stanchezza, e per la frustrazione di dover stare in quello stato, quanto perché i miei familiari mi trattavano da schifo, convinti che avessi deciso di scioperare dalla vita per pigrizia e che non stessi veramente male come dicevo.
Mia sorella, che è un medico, mi consigliò di parlare di questo mio malessere con la psicologa (all’epoca avevo frequentato per un breve periodo una psicoterapeuta cognitivo-comportamentale), dando per scontato che, avendo io ricevuto una diagnosi psicologica, non potessi avere percezioni affidabili sul mio corpo.

Credo di essere cresciuta così: mettendo continuamente in dubbio le mie sensazioni, le mie percezioni di me stessa, i miei bisogni, le mie idee, i miei pensieri.
– Sto male.
– Tu non hai niente.
Entravo in crisi, e mi chiedevo: se è vero che non ho niente allora perché sto male? Evidentemente, ciò che io sento è sbagliato.
Credo, sinceramente, che le mie esigenze non siano state validate nel modo opportuno, e che questo mi abbia in qualche modo danneggiata, rendendomi completamente diffidente riguardo le mie stesse sensazioni e la mia stessa identità.

Fortunatamente il mio medico di base ha una moglie con la mia stessa malattia fisica e mi ha inviata da un reumatologo, il quale ha confermato il suo sospetto (e la diagnosi che io mi ero già fatta da tempo da sola): soffro di fibromialgia. Altresì conosciuta come “Sindrome di Atlante” – dal nome del gigante che, per essersi ribellato a Giove, fu costretto a reggere per sempre il mondo sulle spalle -, una sindrome bastarda, infida e sconosciuta che, semplicemente, rende la vita di chi ne soffre un fardello enorme e senza soluzione. Nessuna cura, nessuna riduzione dell’aspettativa di vita, ma un avvelenamento quotidiano e un drastico abbassamento della qualità di vita. Stanchezza cronica, pessima qualità del sonno, dolori muscolari trafittivi, colon irritabile, problemi ginecologici, disturbi dell’umore, emicranie, acufeni, sindromi allergiche, e chi più ne ha più ne metta. E soprattutto, l’invalidazione da parte del mondo circostante, che ti dice in coro che non sei malata, che il tuo problema è tutto nella tua testa. E in effetti è proprio dalla testa che parte, ma non nel senso che intendono loro.

Guadagna 5000 euro al mese leggendo il mio blog personale.

Alla fine, ho pensato che mi piacerebbe usare questo blog per parlare della mia scheggia nell’occhio. O meglio delle mie schegge nell’occhio. Di ciò che mi impedisce di vivere aderendo alla vita. Delle mie malattie, del mio occhio su me stessa e sul mondo.
Perché?
Prima di tutto, perché scrivere è l’unica cosa che “so fare” e che mi viene naturale fare oltre a mangiare, dormire, scrollare la home di facebook e compiangermi. E lo faccio così spesso che – chissà – raccogliere parte dei miei pensieri in un posto potrebbe risultarmi utile un giorno, in cui un famoso editore annoiato dalla vita potrebbe imbattersi nel mio blog.
Poi, perché credo nel potere della parola e nella sua funzione terapeutica, per chi la adopera e per chi ne fruisce. Credo nella comunicazione come ultima speranza e credo che la parola sia l’ultimo appiglio alla vita per chi soffre, anche se spesso e volentieri può essere la fonte delle sue maggiori sofferenze. Credo valga ancora la pena di provare a comunicare, se è l’ultima cosa che rimane e non vi è più niente da perdere.
Infine, perché ciclicamente provo a scrivere di qualcosa di altro, di esterno da me, ma finisce sempre che in un modo o nell’altro torno a parlare di me stessa. Oppure parlo di altro ma sempre attraverso me. Sono giunta alla conclusione che, nella vita, ognuno ha uno o due argomenti da cui è ossessionato e attraverso i quali filtra la realtà che lo circonda. Ecco, il mio argomento sono io stessa. Sono patologicamente ossessionata da me. Chi è ossessionato da sé stesso – oltre a risultare insopportabile a qualunque essere umano – ha due possibilità, per dirla alla Cioran: la megalomania o l’autodistruzione. E spesso, direi io, queste in un modo o in un altro coincidono. La mia, personalmente, è un’oscillazione, ma tendente verso il secondo polo.
Ad ogni modo, ho deciso di non passare più il tempo a cercare di smussare la mia ossessione, e di cominciare invece a sfruttarla pienamente.

La mia scheggia nell’occhio, per venire al dunque, è la convivenza con una cronica alterazione delle percezioni. Per dirla in modo tecnico, con un disturbo della personalità e con una malattia reumatica cronica. Del primo, sanno poche persone – o sapevano, se per caso ora sono qui e leggono (Ciao!)- perché il disturbo mentale, per quanto aperti di mente si voglia essere, è sempre e comunque una vergogna ed è sempre e comunque difficile da accettare. Avere una mente aperta non ci impedisce di essere influenzati dall’inconscio sociale, dagli archetipi ormai radicati secondo i quali chi è malato di mente è una persona diversa, tarata, malfatta, da allontanare. Nella categoria dei “malati di mente” rientrano tutti: dagli schizofrenici ai depressi clinici e chiunque abbia mai varcato la soglia di uno studio psichiatrico. Eppure, la mente è un organo complesso come tutti gli altri e sono tante le sfumature di cui può tingersi, esattamente come tutto il resto del corpo.
La mia, in particolare, è una patologia di confine. Di quelle che ti fanno dubitare continuamente di avercela, perché sembri perfettamente normale, ma poi un attimo dopo no. E allora boh, vivi nel limbo e non arrivi mai a una conclusione.

Della seconda, sanno in parecchi ma è come se non sapessero, dato che poco e niente si sa a riguardo e che anche questa è una malattia di confine, di quelle che ti lasciano nel dubbio “Sono davvero malata o me lo sto immaginando?”. Se poi hai una diagnosi psichiatrica alle spalle, il dubbio è quotidianamente rinforzato.

Per me tutto si riassume in una sorta di unico disturbo, la cui cifra immutabile è racchiusa in una parola: “instabilità”. Ogni giorno è un interrogativo, un mistero. Come mi sveglierò? Come mi sentirò? Sarò un fascio di dolori? Riuscirò ad alzarmi o resterò a letto per tutto il giorno? Avrò le forze di vestirmi o resterò in pigiama? Penserò di volermi mettere a lavoro su quel curriculum o penserò piuttosto che è il caso di mettermi a studiare? Sarò gentile e socievole con i miei genitori o li manderò a fanculo e mi chiuderò in camera? Chiederò a qualcuno di uscire o mi chiuderò in me stessa? Fisserò il vuoto o riuscirò almeno a guardare una serie tv? Andrò in quel posto dove avevo detto a X di andare? Se qualcuno mi chiama, risponderò a telefono? Mangerò regolarmente o svuoterò la dispensa o digiunerò tutto il giorno? Sarò apatica e imperturbabile o piangerò pensando a quando il mio compagno di classe delle elementari per cui avevo una cotta si è fidanzato con un’altra? E così via per qualsiasi cosa, per qualsiasi aspetto, dal più piccolo al più grande della giornata.
La mia certezza è una sola, socratica: non so nulla di me e della mia vita, tranne che non so mai un cavolo di niente.

E con questa perla di saggezza spero di riuscire ad avviare questo nuovo progetto che non porterò a termine.

Ah, i 5000 euro erano così per dire.