Fibromialgia, dissonnìa e invalidazione.

Tra i sintomi invalidanti della fibromialgia possono esserci pesanti disturbi del sonno, come ad esempio sonno molto superficiale e agitato, mai ristoratore. A volte anche i farmaci possono addirittura peggiorare questo aspetto. È per questo motivo che un fibromialgico ha il continuo bisogno di recuperare, di riposare, perché si sente sempre come se non avesse mai dormito (e in un certo senso così è, perché non ha sperimentato, o l’ha sperimentata in misura insufficiente, la fase del sonno profondo). Ma la parte veramente più dolorosa e invalidante non è questa, è il non venire creduto dai familiari o dagli amici. La maggior parte dei fibromialgici sperimenta quotidiane umiliazioni e vessazioni da parte di chi gli sta vicino – come se non bastasse, tra l’altro, vedere la propria vita scorrere e non riuscire ad afferrarla. Viene trattato perennemente alla stregua di un ragazzino pigro e molto spesso colpevolizzato per la sua stessa malattia. Questo per due motivi principali: il primo è che la sindrome non è riscontrabile attraverso esami precisi (anche se probabilmente a una polisonnografia con elettroencefalogramma l’attività cerebrale risulterebbe anomala, ma raramente si esegue questo tipo di esami, anche perché scarsamente utili) e quindi la diagnosi è sempre clinica, cioè basata sulle testimonianze del paziente, e quindi bisogna in qualche modo “fidarsi” e, se di quella persona non ci si fida, non si crederà neanche alla sua sindrome. Il secondo motivo è che la sintomatologia riguardante la stanchezza, a meno che non si tratti di stanchezza conseguente a chemioterapia in un paziente oncologico – che oltre ad avere un problema evidente e riscontrabile ci ricorda la morte e il fatto che moriremo – è sempre vista con moralismo. La stanchezza mina la produttività, e la mancanza di produttività mina il valore morale di esseri umani. In questo caso quindi la sofferenza passa in secondo piano.
Ma, c’è da crederci, non esiste niente di peggio che soffrire e contemporaneamente essere umiliati dalle persone che dovrebbero sostenerti e aiutarti.
Dolore e stanchezza cronica non sono una colpa. Anche stamattina devo ripetermelo da sola, per non sprofondare.

Sulla vicenda di Lavagna e il sedicenne suicida durante una perquisizione della GdF.

Sulla vicenda di Lavagna il giorno per esprimersi era ieri, ma le mie condizioni non mi permettono di adeguarmi ai tempi esterni per cui raccolgo le forze per farlo adesso.
Da ciò che ho letto e dall’idea che mi sono fatta, mi pare che si tratti del suicidio di un ragazzo che sicuramente aveva dei grossi problemi, e che è avvenuto durante una perquisizione di casa sua da parte dei finanzieri. I finanzieri si trovavano lì perché la madre li aveva chiamati per un controllo a scuola, dove girava dell’hascish, sostanza di cui sono stati trovati appunto addosso al giovane 10 grammi. Stop.
Che cosa c’entra il fumo in tutto questo? Secondo me, veramente poco. Ho letto post in cui si parlava solo di quello, e di quanto infame fosse stata la madre a “fare la spia”. Oggi, su repubblica, vedo un video di una psicologa che parla del “problema della droga” tra i giovani. Persino la madre, durante il funerale, continua a parlare di “droga”.
Morale della favola per i media: un ragazzo si è suicidato perché fumava hascish.
Morale della favola per il popolo indignato: un ragazzo si è suicidato perché la madre è stata un’infame.
Il punto è che anche un bambino capirebbe che la vicenda dell’hascish è un mero accidente nella storia di un sedicenne che si lancia dal balcone esattamente nel momento in cui dei finanzieri stanno colloquiando con i propri genitori.
Un ennesimo fallimento, un’ennesima delusione, pare, nei confronti di una madre apprensiva.
Ovviamente, la scelta della madre di aiutare il figlio chiamando la Guardia di finanza è stata a dir poco discutibile, ma se i genitori avessero mai capito qualcosa di come aiutare i figli non esisterebbe il tanto decantato “male” di cui la madre parla e straparla durante il suo discorso in Chiesa. Un “male” che veramente niente ha a che fare con una sostanza per la cui legalizzazione e per il cui uso consapevole e libero si fanno battaglie su battaglie. Un “male” che sicuramente ha molto più a che fare con “un grande vuoto”, che la madre stessa afferma che il figlio si portava dietro da tanto tempo. Un “male” che, forse, potrebbe avere a che fare con l’abbandono da parte della sua “prima mamma”, che la seconda madre spera che lui possa incontrare una volta salito su da lei.

Insomma, chissà quanta sofferenza, quante nevrosi, quanto vuoto e dolore c’era nella storia di questo ragazzo, che chissà per quali motivi sacrosanti aveva deciso di alleviare parzialmente il proprio vuoto facendosi le canne.
Ma, si sa, andare oltre le cose evidenti è un lavoro faticoso per le menti pigre, e soprattutto per le famiglie, per i genitori, che sarebbero costretti così a scoperchiare il vaso di Pandora, a guardare dentro sé stessi e a riconoscere anche la propria parte di responsabilità. Quindi, pure davanti a un figlio morto, continuano a dare la colpa al fumo, ai social network, alle amicizie, all’altro. Pur di non mettere in discussione il proprio operato, di non accettare che purtroppo non si è riusciti ad alleviare un dolore troppo grande, che poi non è per forza una colpa ma può essere anche solo un triste fatto, perché a volte bisognerebbe solo ammettere di non essere stati capaci di far fronte a qualcosa di più grande di sé.

Purtroppo, capita che chi crede con tutte le forze di aiutarti ti crei in realtà un’ulteriore grossa mole di sofferenza da portare, e può capitare anche che ti carichi così tanto che tu non ce la faccia più. Così forse è stato per questo ragazzo, che non solo non ha ricevuto in vita l’aiuto di cui avrebbe avuto bisogno, ma pure ora che è morto si vede non riconosciuto il proprio dolore profondo, e lo vede ridotto a un “problema di droga”, perché non solo la famiglia ma neppure la società vuole prendersi la responsabilità di riflettere su sé stessa e di constatare il proprio fallimento.

L’ultima risorsa del capro espiatorio.

“Nella nostra cultura c’è un potente pregiudizio giudaico-cristiano contro il No Contact. I taciti credo quali “Perdona e dimentica” e “Porgi l’altra guancia” sono contrari alla necessità di proteggersi dall’abuso. Il No Contact è anche una minaccia al mito della buona famiglia. Di conseguenza, i capri espiatori che utilizzano il No Contact sono spesso giudicati con durezza e falsamente accusati di essere insensibili,menefreghisti e ostili – esattamente le caratteristiche del comportamento delle persone che abusano.”

Il “no contact” – l’ultima risorsa del capro espiatorio

La memoria del corpo: la malattia come cicatrice.

Mi piacerebbe raccontare come cambia il corpo, con una patologia cronica. E come cambia la percezione, del corpo, in un soggetto che del corpo ha sempre fatto il proprio oggetto di martirio, tortura e punizioni varie.

Io non credo nel karma, e tutte quelle cose lì, ma credo nella responsabilità individuale e nel fatto che, se gli fai del male per tanto tempo, prima o poi il corpo ti presenta il conto con una marea di interessi.

Quando ho fatto la mia prima e ultima visita reumatologica, il medico mi ha prescritto un antidepressivo SNRI.
La fibromialgia si presenta come un’alterazione neurologica della percezione del dolore e della stanchezza, in seguito alla quale il soggetto malato avverte sensazioni di dolore, stanchezza, ecc in seguito a stimoli che, in una persona sana, non causerebbero nulla o quantomeno non quel livello di dolore e stanchezza. Questa alterazione è dovuta a uno squilibrio di due ormoni fondamentali: serotonina e noradrenalina. Per questo gli SNRI (Serotonin–norepinephrine reuptake inhibitors – inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina e della noradrenalina) agiscono  – o dovrebbero agire, perché spesso non funzionano – in modo da rimodulare e ristabilire la giusta e “normale” percezione del dolore.

Così, mi ha dato il farmaco e mi ha detto di farmi seguire da un neurologo o da uno psichiatra. A quel punto, mi è sembrato giusto dirgli – cosa che finora non avevo fatto per paura di influenzare l’esito della visita – che già anni prima avevo fatto uso di antidepressivi, per via di alcuni problemi con l’umore (mi sono mantenuta vaga, preferendo non entrare nei dettagli).

La fibromialgia è una malattia misconosciuta, e sono tanti i medici che la trattano ancora come “malattia immaginaria” o pura somatizzazione di uno stato depressivo.
In realtà le cose non sono così semplici. Una correlazione tra malattia reumatica e psiche può esistere, ma non in modo così semplicistico e così diretto.
Esistono studi secondo i quali il dolore cronico tende a insorgere in soggetti con una determinata personalità: fragile, ipersensibile, tendente ad addossarsi le colpe dei mali altrui. Secondo altri studi tutto ciò invece non ha alcun fondamento di verità.

A me, personalmente, piace l’interpretazione del mio reumatologo, il quale mi ha detto che tutto ciò che viviamo lascia sul corpo delle cicatrici, destinate a restare come il segno indelebile del dolore che abbiamo vissuto e che portiamo addosso.

Alla rabbia è subentrato il mio stupido sottile compiacimento poetico. Mi piace pensare che la mia sofferenza sia inflitta per sempre nelle mie carni, che ci sarà sempre a ricordarmi ciò che sono stata e ciò che sono.

Siamo marchiati a vita dalla sofferenza, e il corpo non perdona niente.
Come noi non abbiamo mai perdonato niente a lui.

La Sindrome di Atlante: il riconoscimento.

Ho sonno, sono stanca, ho la pancia gonfia, pruriti e dolori diffusi. Mi sento giù di tono e ho perennemente voglia di mangiare.

Ho sempre avuto una spiccata tendenza a stancarmi facilmente e a sentirmi debole, ma la cosa è sempre stata minimizzata dall’ambiente che mi circondava, tanto da farmi pensare, alla lunga, che non ci fosse niente che non andava in me. O meglio, ciò che non andava in me era il mio continuo lamentarmi di qualcosa che in realtà non esisteva, che gli altri non vedevano, e quindi era meglio stare zitta. Be’, in realtà ho continuato a lamentarmi, raccogliendo dissensi e critiche ma imperterrita. Era pur sempre la cosa che mi riusciva meglio e non potevo certo smettere di farlo.

La scorsa primavera, dopo un fine settimana fuori casa in cui mi sono stancata un po’ più del solito, sono tornata a casa e non mi sono alzata più dal letto per 20 giorni. Sì, insomma, come sempre ero stanca, sentivo il bisogno di recuperare le energie, ma questa volta sembrava che io non le recuperassi mai. Dormivo quasi tutto il giorno, e continuavo a essere stanca. Avevo dolori a qualsiasi muscolo, atroci, e niente me li alleviava. Fu un periodo terribile. Non tanto per i dolori, per la stanchezza, e per la frustrazione di dover stare in quello stato, quanto perché i miei familiari mi trattavano da schifo, convinti che avessi deciso di scioperare dalla vita per pigrizia e che non stessi veramente male come dicevo.
Mia sorella, che è un medico, mi consigliò di parlare di questo mio malessere con la psicologa (all’epoca avevo frequentato per un breve periodo una psicoterapeuta cognitivo-comportamentale), dando per scontato che, avendo io ricevuto una diagnosi psicologica, non potessi avere percezioni affidabili sul mio corpo.

Credo di essere cresciuta così: mettendo continuamente in dubbio le mie sensazioni, le mie percezioni di me stessa, i miei bisogni, le mie idee, i miei pensieri.
– Sto male.
– Tu non hai niente.
Entravo in crisi, e mi chiedevo: se è vero che non ho niente allora perché sto male? Evidentemente, ciò che io sento è sbagliato.
Credo, sinceramente, che le mie esigenze non siano state validate nel modo opportuno, e che questo mi abbia in qualche modo danneggiata, rendendomi completamente diffidente riguardo le mie stesse sensazioni e la mia stessa identità.

Fortunatamente il mio medico di base ha una moglie con la mia stessa malattia fisica e mi ha inviata da un reumatologo, il quale ha confermato il suo sospetto (e la diagnosi che io mi ero già fatta da tempo da sola): soffro di fibromialgia. Altresì conosciuta come “Sindrome di Atlante” – dal nome del gigante che, per essersi ribellato a Giove, fu costretto a reggere per sempre il mondo sulle spalle -, una sindrome bastarda, infida e sconosciuta che, semplicemente, rende la vita di chi ne soffre un fardello enorme e senza soluzione. Nessuna cura, nessuna riduzione dell’aspettativa di vita, ma un avvelenamento quotidiano e un drastico abbassamento della qualità di vita. Stanchezza cronica, pessima qualità del sonno, dolori muscolari trafittivi, colon irritabile, problemi ginecologici, disturbi dell’umore, emicranie, acufeni, sindromi allergiche, e chi più ne ha più ne metta. E soprattutto, l’invalidazione da parte del mondo circostante, che ti dice in coro che non sei malata, che il tuo problema è tutto nella tua testa. E in effetti è proprio dalla testa che parte, ma non nel senso che intendono loro.

Guadagna 5000 euro al mese leggendo il mio blog personale.

Alla fine, ho pensato che mi piacerebbe usare questo blog per parlare della mia scheggia nell’occhio. O meglio delle mie schegge nell’occhio. Di ciò che mi impedisce di vivere aderendo alla vita. Delle mie malattie, del mio occhio su me stessa e sul mondo.
Perché?
Prima di tutto, perché scrivere è l’unica cosa che “so fare” e che mi viene naturale fare oltre a mangiare, dormire, scrollare la home di facebook e compiangermi. E lo faccio così spesso che – chissà – raccogliere parte dei miei pensieri in un posto potrebbe risultarmi utile un giorno, in cui un famoso editore annoiato dalla vita potrebbe imbattersi nel mio blog.
Poi, perché credo nel potere della parola e nella sua funzione terapeutica, per chi la adopera e per chi ne fruisce. Credo nella comunicazione come ultima speranza e credo che la parola sia l’ultimo appiglio alla vita per chi soffre, anche se spesso e volentieri può essere la fonte delle sue maggiori sofferenze. Credo valga ancora la pena di provare a comunicare, se è l’ultima cosa che rimane e non vi è più niente da perdere.
Infine, perché ciclicamente provo a scrivere di qualcosa di altro, di esterno da me, ma finisce sempre che in un modo o nell’altro torno a parlare di me stessa. Oppure parlo di altro ma sempre attraverso me. Sono giunta alla conclusione che, nella vita, ognuno ha uno o due argomenti da cui è ossessionato e attraverso i quali filtra la realtà che lo circonda. Ecco, il mio argomento sono io stessa. Sono patologicamente ossessionata da me. Chi è ossessionato da sé stesso – oltre a risultare insopportabile a qualunque essere umano – ha due possibilità, per dirla alla Cioran: la megalomania o l’autodistruzione. E spesso, direi io, queste in un modo o in un altro coincidono. La mia, personalmente, è un’oscillazione, ma tendente verso il secondo polo.
Ad ogni modo, ho deciso di non passare più il tempo a cercare di smussare la mia ossessione, e di cominciare invece a sfruttarla pienamente.

La mia scheggia nell’occhio, per venire al dunque, è la convivenza con una cronica alterazione delle percezioni. Per dirla in modo tecnico, con un disturbo della personalità e con una malattia reumatica cronica. Del primo, sanno poche persone – o sapevano, se per caso ora sono qui e leggono (Ciao!)- perché il disturbo mentale, per quanto aperti di mente si voglia essere, è sempre e comunque una vergogna ed è sempre e comunque difficile da accettare. Avere una mente aperta non ci impedisce di essere influenzati dall’inconscio sociale, dagli archetipi ormai radicati secondo i quali chi è malato di mente è una persona diversa, tarata, malfatta, da allontanare. Nella categoria dei “malati di mente” rientrano tutti: dagli schizofrenici ai depressi clinici e chiunque abbia mai varcato la soglia di uno studio psichiatrico. Eppure, la mente è un organo complesso come tutti gli altri e sono tante le sfumature di cui può tingersi, esattamente come tutto il resto del corpo.
La mia, in particolare, è una patologia di confine. Di quelle che ti fanno dubitare continuamente di avercela, perché sembri perfettamente normale, ma poi un attimo dopo no. E allora boh, vivi nel limbo e non arrivi mai a una conclusione.

Della seconda, sanno in parecchi ma è come se non sapessero, dato che poco e niente si sa a riguardo e che anche questa è una malattia di confine, di quelle che ti lasciano nel dubbio “Sono davvero malata o me lo sto immaginando?”. Se poi hai una diagnosi psichiatrica alle spalle, il dubbio è quotidianamente rinforzato.

Per me tutto si riassume in una sorta di unico disturbo, la cui cifra immutabile è racchiusa in una parola: “instabilità”. Ogni giorno è un interrogativo, un mistero. Come mi sveglierò? Come mi sentirò? Sarò un fascio di dolori? Riuscirò ad alzarmi o resterò a letto per tutto il giorno? Avrò le forze di vestirmi o resterò in pigiama? Penserò di volermi mettere a lavoro su quel curriculum o penserò piuttosto che è il caso di mettermi a studiare? Sarò gentile e socievole con i miei genitori o li manderò a fanculo e mi chiuderò in camera? Chiederò a qualcuno di uscire o mi chiuderò in me stessa? Fisserò il vuoto o riuscirò almeno a guardare una serie tv? Andrò in quel posto dove avevo detto a X di andare? Se qualcuno mi chiama, risponderò a telefono? Mangerò regolarmente o svuoterò la dispensa o digiunerò tutto il giorno? Sarò apatica e imperturbabile o piangerò pensando a quando il mio compagno di classe delle elementari per cui avevo una cotta si è fidanzato con un’altra? E così via per qualsiasi cosa, per qualsiasi aspetto, dal più piccolo al più grande della giornata.
La mia certezza è una sola, socratica: non so nulla di me e della mia vita, tranne che non so mai un cavolo di niente.

E con questa perla di saggezza spero di riuscire ad avviare questo nuovo progetto che non porterò a termine.

Ah, i 5000 euro erano così per dire.

Vivere in un corpo malato – Riflessioni sull’abilismo

AnimALiena

Da tempo –  all’incirca da quando, qualche mese fa, abbiamo tradotto la Teoria della Donna Malata su Les Bitches –  ho cominciato a desiderare di fare coming out della mia condizione di malata cronica. Eppure ho continuato a procrastinare questo scomodo appuntamento con me stessa, distogliendo l’attenzione e proiettandola su altri argomenti, meno intimi e perciò meno delicati da trattare. Persino adesso, mentre scrivo, le parole – solitamente amiche e alleate – si fanno sfuggenti e capricciose, e il cursore lampeggia per un tempo fastidiosamente lungo, mentre cerco di dare una forma compiuta ai miei pensieri.

Molti di coloro che sperimentano la malattia, non come accidente – inevitabile eppure passeggero – ma come compagna di vita, riconoscono un prima e un dopo: il ricordo di un passato nel quale si era “normali”, organismi apparentemente totipotenti, e un presente fatto di compromessi e limitazioni, preoccupazione e dolore. E vergogna.

Il mondo nel quale…

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La scheggia nell’occhio.

“Apriamo un altro blog!”. C’è chi fa shopping compulsivo, chi è dipendente dall’alcool, dalle droghe, dal sesso, dal cibo: io apro i blog.
Ho sempre avuto questo bisogno assurdo di esprimere, di comunicare, di tradurre in parole.
È credenza comune che la scrittura aiuti a elaborare il dolore, le perdite, le difficoltà, a risanare ciò che è ferito o a creare qualcosa dal vuoto. È una credenza che presenta un fondo di verità. Sebbene nelle “Riflessioni sul dolore” Umberto Eco ci faceva notare che Pavese, quello che scriveva che “Soffrire non serve a niente” e si consolava poi dicendo che almeno gli era servito a scrivere quelle belle parole, alla fine si è suicidato lo stesso, portandosi nella tomba, a Santo Stefano Belbo, una magra consolazione.
Quindi, così come soffrire, anche scrivere non serve a niente.
E leggere ciò che gli altri scrivono, non ne parliamo.
Su un blog di una cretina qualunque, poi, non c’è neanche da chiederselo.

La scheggia nell’occhio è la sofferenza che porta alla scrittura. In uno degli aforismi dei suoi “Minima Moralia”, Adorno la definiva “la miglior lente d’ingrandimento”.
Lo stesso Brecht, ne “Il postero”, diceva “I ciechi parlano di una via d’uscita, io ci vedo”.
Ma che la sofferenza  – e la conoscenza, sua compagna inseparabile – sia una sorta di terzo occhio, di senso ulteriore, una specie di sfiga che poi si rivela essere un amaro dono, è un leitmotiv della storia del pensiero sin dall’antichità.

Il Qohèlet, il testo (bellissimo) più antico della Bibbia, recita:

” Sapienza che più cresce
più grave si fa il tormento.
Conoscenza che più si addensa
più grave si fa il dolore.”

Insomma, che soffrire renda saggi è una credenza antica che, detto tra noi, ho sempre trovato piuttosto presuntuosa.
Ma che soffrire renda lucidi è una verità inconfutabile.
Cioran – e sì, sono una pedante citazionista – ribadiva, con Pavese, che soffrire non serve a un emerito niente, e che l’unica relativa consolazione di chi soffre potesse essere “Ho sofferto, dunque ho capito.” Niente di più. Ma dunque, soffrire porta a capire e, seguendo la saggezza greca, capire e conoscere porta a soffrire.
“La conoscenza è una piaga, e la coscienza una ferita aperta nel cuore della vita.”

Il passo successivo, per uscire dal circolo, può essere solo il distacco, e uno dei mezzi per raggiungerlo è la scrittura, la parola, il racconto.
Infatti, se si guarda una cosa con la lente d’ingrandimento si entra nella profondità dei suoi dettagli, ma solo guardandola da lontano la si può percepire nella sua interezza di contrasti e sfumature.